L’Africa è in Brasile
Nessun luogo al mondo è visceralmente legato all'Africa quanto Salvador, capitale dello stato brasiliano di Bahia.
Immaginate per un attimo di esservi smarriti nei vasti spazi delle Americhe e di atterrare su un pezzo di Africa così vibrante che sembra racchiudere in sé tutta la linfa del continente: non ci sono dubbi, siete anima e corpo a Salvador de Bahia, nell’estremo oriente di un Brasile che ospita il più alto numero di neri al mondo dopo la Nigeria.
Salvador de Bahia è stata la prima capitale del Brasile, dal 1548 al 1793. Centro di grande rilevanza per la coltivazione della canna da zucchero, fu uno dei principali crocevia del commercio tra Europa, Africa e America e, soprattutto, un autentico punto di convergenza tra le culture dei tre continenti.
Ora chiudete gli occhi, aprite davanti a voi un’immaginaria carta geografica e andate a ritroso nel tempo. Siete partiti dalla terza città del Brasile, ed eccovi su una spiaggia africana, in Congo dalle parti di Pointe-Noire, o in qualche altro posto del paese yoruba.
Il cerchio si chiude.
Il cerchio si chiude.
Per uno di quei paradossi storici frequenti quanto misteriosi, la presenza degli spiriti, l’intensità dei riti, le mille maschere dei popoli e dei totem africani sembrano più visibili nelle stradine lastricate della città vecchia di Salvador – la famosa Saõ Salvador da Bahia de Todos os Santos – che a Luanda, Abeokuta o Cotonou.
In Africa, quanto meno nelle metropoli, non c’è bisogno di essere degli stregoni per notare che gli spiriti vivono reclusi nei cortiletti polverosi o in anfratti ancora più nascosti.
Invece tutti sanno che a Bahia gli orisha vivono all’aria aperta, in mezzo agli uomini e nel cuore di ciascuno di loro, bianchi o neri che siano. Sono continuamente omaggiati, giorno e notte, e non solo dagli artisti e dai ballerini del carnevale.
Se avrete, come me, la fortuna di incontrare la cantante lirica Rita Brás o il tonante Aloísio Menezes (la sua voce stentorea risuona a lungo nelle orecchie dopo che ha finito di cantare l’ultima strofa dell’ode a Shango o a Yemanjá), scoprirete che qui le parole emozione o fusione hanno pienamente il loro senso.
Tutti gli artisti vi confermeranno che Bahia è il cuore pulsante dell’Africa. Vi confesseranno tra una risata e l’altra che hanno un rapporto filiale, carnale e profondo con i riti del candomblé. Alzeranno un lembo del velo che ricopre i codici del loro abbigliamento, delle loro inflessioni corporee e di altri segni di riconoscimento invisibili ai visitatori di passaggio.
Con loro sperimenterete ovunque la festa dei sensi.
E tutto – edifici, case ricche o povere, terreni pubblici, periferie, centri commerciali, teatri, blocos, terreiros, favelas, vie, torrenti e autostrade – tutto vi ricorderà la presenza degli spiriti partiti secoli fa, nella notte, dalle stive delle navi negriere.
E se vi venisse l’idea balzana (ma in fin dei conti non così tanto, visto il contesto spirituale) di chiedere alla chuva, la pioggia che cade fitta su Salvador de Bahia, da dove trae la sua forza, essa vi risponderà senza esitare che anche lei, naturalmente, se la intende con gli orisha.
E così, ogni giorno le divinità africane si prendono la rivincita sulla storia degli uomini e le loro voci sorgono dalla baraonda delle innumerevoli compagnie di samba o del carnevale.
Queste voci di altri tempi volteggiano al di sopra degli alberi sacri che circondano la baia; poco più in là, enormi condomini e grattacieli cercano di farci credere che il Brasile non abbia nulla da invidiare allo skyline di New York o di Shanghai.
Non fate troppe domande al vostro cicerone bahiano: rischiate di metterlo in imbarazzo. Ci sono segreti che non si condividono e che ogni capoeirista sa conservare in fondo al cuore.
Avete una grande fortuna se riuscite a trovarvi al Pelourinho, il centro storico della città, il 2 luglio, quando lo stato di Bahia festeggia la sua indipendenza e l’unione al Brasile avvenuta nel 1823, nell’afa inebriante di Bahia, sarà celebrata sotto i vostri occhi.
Già di prima mattina vedrete una massa umana prendere d’assalto le vecchie stradine per incamminarsi verso la piazza principale.
Fanfare, parate, processioni. Musiche e danze, spesso ogni due metri.
Fanfare, parate, processioni. Musiche e danze, spesso ogni due metri.
Maglie con i colori del paese, il giallo che prevale.Volti pitturati. Risate, gioia, piaceri dei sensi.
Non si può rifiutare nulla agli orisha che hanno assunto sembianze umane. Alegria, alegria, alegria.
Di sicuro sarete urtati. Anche abbracciati, e persino baciati.
E, certamente, sarete trascinati da una folla interminabile.
Sono le dieci del mattino, penserete. Soltanto le dieci?
Abdourahman A. Waberi, Slate Afrique, Francia
Traduzione di Cristina Biasini.
Internazionale, numero 903, 24 giugno 2011
Illustrazione di Angelo Monne.
Illustrazione di Angelo Monne.
Abdourahman A. Waberi è uno scrittore, poeta e saggista di Gibuti. Il suo ultimo libro è Gli Stati Uniti d’Africa. Questo articolo è uscito su Slate Afrique con il titolo “Au Brésil, on ne peut rien refuser aux orishas”.
0 commenti: