Cambiare sesso è un diritto in Brasile




Brasile: Transessuali, conquista a metà

Il ministero della Salute brasiliano, con un provvedimento entrato in vigore il 18 agosto 2008, ha disposto che il sistema sanitario nazionale (Sus) si faccia carico dei costi sostenuti dalle persone transessuali nei procedimenti per la rettificazione del sesso. In questo modo il ministero esplicitamente intende garantire il diritto alla salute delle persone transessuali, nonché eliminare i casi di violazione dei diritti umani e di discriminazione fondati sull’identità di genere subite in ambito sanitario, in applicazione dei principi riconosciuti dalla “Carta dei diritti degli utenti della sanità pubblica”, approvata nel 2006.

Il provvedimento si distingue perché non limita il sostegno economico pubblico all’intervento chirurgico in sé, ma lo estende all’intero percorso medico-psicologico e sanitario di rettificazione del sesso. Questa visione olistica delle problematiche connesse alla transessualità è fondamentale, perché l’intervento chirurgico rappresenta in qualche modo solo il possibile epilogo di un lungo processo di transizione durante il quale la persona transessuale deve fare ricorso a diversi specialisti (psicologo, endocrinologo, etc), a costose cure ormonali e ad altri interventi chirurgici di adeguamento dei caratteri sessuali secondari (seno, etc.) alla nuova identità femminile o maschile.

Anche in Italia, per esempio, grazie alla legge numero 64 del 1982, lo stato riconosce alle persone transessuali il diritto alla rettificazione del sesso, ma il servizio sanitario nazionale si fa carico solo dei costi relativi all’intervento chirurgico, lasciando a carico delle persone transessuali i costi gravosi relativi alle cure e agli interventi ritenuti, a torto, non necessari o di natura solamente estetica, come per esempio la ricostruzione del seno nelle persone che transitano da maschio a femmina.

Ancora più interessante è che il provvedimento del ministero brasiliano stabilisce l’istituzione di percorsi di formazione permanente e specifica rivolti agli operatori sanitari che entrano in contatto con le persone transessuali, nonché azioni finalizzate alla sensibilizzazione e al rispetto delle differenze, rivolte a tutti gli operatori sanitari e a tutti i cittadini che usufruiscono dei servizi del sistema sanitario nazionale. Il ministero ha anche disposto che si valutino l’efficacia, l’effettività, i costi e i benefici, la qualità dell’intero procedimento di transizione per poter intervenire sugli aspetti e le fasi che non raggiungono i migliori standard.
Fin qui l’importante contenuto del provvedimento del ministero della Salute del Brasile.
Va tuttavia sottolineato che non si tratta di un provvedimento legislativo, bensì di una fonte subordinata, che al momento rappresenta soltanto un primo passo non inserito in un disegno complessivo di tutela della salute, dei diritti e della dignità delle persone transessuali. Occorre ricordare, infatti, che in Brasile manca una legge che permetta la rettificazione del sesso.

Il primo tentativo di approvazione di una legge in questo senso si ebbe nel 1979, nello stesso anno in cui veniva approvata la legge tedesca sul transessualismo, che avrebbe poi aperto la strada all’approvazione di quella italiana del 1982. La proposta di legge del 1979 fu approvata dal Congresso nazionale, ma su di essa fu messo il veto dal presidente della Repubblica João Figueiredo, su forte pressione di ambienti religiosi, e non venne più riapprovata. Da allora diversi altri progetti di legge sono stati presentati, ma nessuno è mai giunto all’approvazione.
La mancanza di una legge statale, come si dirà appresso, ha costituito una grave violazione dei diritti delle persone transessuali, in un intreccio continuo di questioni giuridiche e mediche. Il Consiglio federale di Medicina (Cfm), massimo organismo di riferimento in campo medico-scientifico, aveva sempre condannato la pratica del cambiamento di sesso, ritenendola mutilante e lesiva dell’integrità fisica della persona. A questa condanna si è affiancata negli anni quella dei tribunali che hanno variamente giustificato il divieto e la condanna dell’intervento di rettificazione di sesso, ora come contrario alla morale o al bene pubblico, ora come violazione dell’art. 129 del codice penale che punisce le lesioni all’integrità fisica.
Soltanto con la risoluzione numero 1482 del 1997, il Cfm ha incominciato a fare delle aperture prevedendo la possibilità che alcuni ospedali pubblici, in genere universitari, potessero realizzare gratuitamente interventi chirurgici di rassegnazione del sesso a fini di ricerca sperimentale, previa autorizzazione e nel rispetto dei criteri stabiliti dallo stesso Cfm. Basti pensare che il chirurgo che per primo annunciò di aver proceduto in Brasile ad un intervento di rettificazione del sesso nel 1971, il dottore Roberto Farina, ha dovuto subire due lunghi processi, uno penale e uno disciplinare, che soltanto di recente si sono conclusi con la sua assoluzione in appello (era stato condannato in primo grado), mentre la prima autorizzazione a rettificare il proprio sesso, con un intervento chirurgico a carico dello Stato, si è avuta soltanto nel 1998.

Un gay pride a San Paolo



Con la risoluzione numero 1652 del 2002, lo stesso Cfm ha rivisto e modificato il proprio indirizzo. In particolare ha previsto che la rettificazione di sesso da uomo a donna è libera, potendo essere realizzata in strutture sia pubbliche che private, indipendentemente da finalità di ricerca scientifica, mentre la rettificazione da donna a uomo può ancora essere realizzata solo in ospedali universitari o comunque pubblici solo per scopi di ricerca scientifica.
A chi scrive sfuggono le ragioni che giustificano questa disparità di trattamento, ma va rilevato che lo stesso provvedimento del ministero della Salute, che riconosce la gratuità dell’intero procedimento di rettificazione del sesso, dispone che siano rispettate le condizioni stabilite dal Consiglio federale di Medicina nella risoluzione n. 1652/2002: quindi i benefici sarebbero limitati alle persone che transitano da maschio a femmina e non il contrario, cosa che appare fortemente discriminatoria. Tra le altre condizioni vi è anche quella che stabilisce in 21 anni l’età minima per accedere all’intervento di rettificazione.

L’altro grande problema che ancora permane, a causa della mancanza di una legge sul transessualismo, riguarda l’impossibilità di modificare il proprio nome e i documenti personali a seguito dell’intervento. A oggi, infatti, esiste un divieto quasi assoluto per i registri dello stato civile di modificare il nome di un cittadino, tranne in quei casi nei quali il nome risultasse ridicolo. Tale divieto permane anche a seguito di avvenuta rettificazione di sesso, autorizzata o meno dal Cfm.

In questo contesto lo Stato pone a carico del sistema sanitario nazionale i costi della transizione, ma non riconosce alle persone transessuali la possibilità di ottenere un nuovo nome adeguato al sesso acquisito e nuovi documenti. È evidente come permanga una profonda violazione dei diritti e della dignità delle persone transessuali, le quali in ambito sociale continueranno a subire discriminazioni e umiliazioni e non vedranno riconosciuto il nuovo status acquisito.
I tribunali intervenuti su questa questione si sono espressi in maniera diversa. Alcuni cercando una possibile soluzione alternativa hanno anche previsto l’inserimento nei registri dello stato civile la dizione «transessuale» come se si trattasse di un terzo sesso, oltre maschio e femmina. La maggior parte dei tribunali ha ritenuto che il sesso giuridico è altro rispetto al sesso psicosociale e comunque differente da quello biologico che è fissato una volta per tutte al momento della nascita e riportato nei registri dello stato civile.

Non sono mancate poche sparute sentenze, peraltro molto recenti, che invece hanno riconosciuto il diritto della persona transessuale alla rettificazione del sesso, autorizzandola a modificare il nome nell’atto di nascita e i documenti personali. Così, per esempio, ha deciso nel giugno 2007 la Defensoria pública regional di Ribeirão Preto (300 chilometri a nord di San Paolo); allo stesso modo, nello stesso anno, hanno deciso il tribunale di Pernambuco (Tjpe) e quello di Porto Alegre.
In conclusione, la situazione in Brasile è costituita ancora oggi, a seguito dell’importante intervento del ministero della Salute, di luci ed ombre. Il cammino verso il pieno riconoscimento dei diritti e della dignità delle persone transessuali sembra non essere giunto a conclusione e appare ben lontano dalla realtà giuridica di altri paesi, ancora pochi per vero, che riconoscono il diritto al cambiamento del nome e dei documenti senza la necessità o prima di procedere all’intervento chirurgico, come per esempio avviene in Spagna.

Il riconoscimento dei diritti delle persone transessuali costituisce uno degli indici del grado di civiltà raggiunto da un paese e che non si misura unicamente dal corpo delle leggi di cui dispone. In questo senso l’Italia, che pur dispone di una legge sulla riattribuzione del sesso, dimostra scarsa sensibilità e grandi pregiudizi nei confronti delle persone transessuali, se si escludono pochissime lungimiranti esperienze portate avanti da amministrazioni locali, ad esempio la Toscana, dove le persone transessuali vengono assistite anche nel percorso di inserimento nel mondo del lavoro, spessissimo ostile nei loro confronti a causa dello stigma sociale.
L’autore è avvocato e componente del direttivo della Rete Lenford - Avvocatura per i diritti Lgbt

(lesbiche-gay-bisessuali-transessuali).

10.9.2008
fonte: musibrasil

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