Cidade De Deus
CIDADE DE DEUS (CITTA' DI DIO)
CAST TECNICO ARTISTICO
Regia: Fernando Meirelles
Sceneggiatura: Braulio Mantovani
Fotografia: Cesar Charlone
Scenografia: Tulé Peak
Costumi: Bia Salgano, Ines Salgado
Musica: Ed Cortes, Antonio Pinto
Montaggio: Daniel Rezende
Prodotto da: Andrea Brata Ribeiro, Mauricio Andrade Ramos
(Brasile/Francia/USA, 2003)
Durata: 130'
Distribuzione cinematografica: Mikado
PERSONAGGI E INTERPRETI
Buscapé: Alexandre Rodrigues
Ze Pequeno: Leandro Firmino da Hora
Sandro Cenoura: Matheus Nachtergaele
Mane Galinha: Seu Jorge
Dadinho: Douglas Silva
Tratto dal romanzo del brasiliano Paulo Lins, il film racconta la vita di una favela – Cidade de Deus – ai margini di Rio de Janeiro, partendo dagli anni ’60 per contrapporre al suo disfacimento l’ascesa di alcune potenti gang di quartiere. Buscapé, undicenne locale con un speciale talento per la fotografia, insegue i suoi sogni per sfuggire ad un esistenza segnata dal crimine e dalla corruzione. Tra episodi di violenza e il patimento di una povertà devastante, il timido studente descrive così il suo mondo e quello delle feroci bande giovanili, rischiando di frequente la propria incolumità.
Attraverso trent'anni di vita (dai 60’ agli 80’) e la prospettiva di due generazioni, “City of God” racconta la discesa agli inferi di un’intera classe sociale condannata ad implodere entro i confini della propria miseria, il cui esilio, culturale ed economico, ha irrimediabilmente contribuito all'inasprimento di una cornice esistenziale avvelenata dalla violenza e dalla criminalità. La morte – più che in altri gangster-movies di stampo tarantiniano a cui vien facile paragonarlo – si perde per il regista Fernando Meirelles nei dettagli del quotidiano, come parte dello spazio scenico a cui lo sguardo finisce, suo malgrado, con l’abituarsi. È l’impulso indotto da una ricerca estetica e narrativa che ostenta toni documentaristici, per giustificare il senso di una realtà volutamente non spettacolarizzata, ma piuttosto rifinita da Meirelles con una peculiare interdipendenza tra i cromatismi della scena e la graduale metamorfosi dell’ambiente (ricordando, in questo, un certo uso sintattico del technicolor).
I tre decenni divengono così altrettante tappe stilistiche, mediate dalla voce fuoricampo del giovane protagonista ed influenzate dal soggettivismo di un resoconto empirico solo nella descrizione del presente, ma pervaso di risonanze leggendarie quando si trova a riferire un passato di cui non ha esperienza. Il degrado dello scenario suburbano, semmai, viene espresso nella sua integrità dalle scelte di pre-produzione: ricorrendo, cioè, a circa 200 attori non professionisti scelti tra le favelas – molti chiamati ad interpretare la loro stessa vita – per consentire una verosimiglianza scandita dalla fisionomia, dal linguaggio e dalla gestualità di coloro che non tracciano linee di demarcazione tra l’artificio cinematografico e la dolorosa incidenza della propria routine.
Montato con cura geometrica, “City of God” è il promettente esempio di un cinema cosmopolita la cui vivacità risiede nel riscatto da un neorealismo usurato, che evita di rifugiarsi in un ritratto di maniera per anteporvi, al contrario, l’alternativa di una forma dinamica e personale.
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